domenica 15 agosto 2010


Il ragazzo che era in me



Va' a sapere perché fossi là quella sera nei prati.
Forse mi ero lasciato cadere stremato di sole,
e fingevo l'indiano ferito. Il ragazzo a queí tempi
scollinava da solo cercando bisonti
e tirava le frecce dipinte e vibrava la lancia.
Quella sera ero tutto tatuato a colori di guerra.
Ora, l'aria era fresca e la medica pure
vellutata profonda, spruzzata dei fiori
rossogrigi e le nuvole e il cielo
s'accendevano in mezzo agli steli. Il ragazzo riverso
che alla villa sentiva lodarlo, fissava quel cielo.
Ma il tramonto stordiva. Era meglio socchiudere gli occhi
e godere l'abbraccio dell'erba. Avvolgeva come acqua.

Ad un tratto mi giunse una voce arrochita dal sole:
il padrone del prato, un nemico di casa,
che fermato a vedere la pozza dov'ero sommerso
mi conobbe per quel della villa e mi disse irritato
di guastar roba mia, che potevo, e lavarmi la faccia.
Saltai mezzo dall'erba. E rimasi, poggiato le mani,
a fissare tremando quel volto offuscato.

Oh la bella occasione di dare una freccia nel petto di un uomo!
Se il ragazzo non ebbe il coraggio, m'illudo a pensare
che sia stato per l'aria di duro comando che aveva quell'uomo.
lo che anche oggi mi illudo di agire impassibile e saldo
me ne andai quella sera in silenzio e stringevo le frecce
borbottando, gridando parole d'eroe moribondo.
Forse fu avvilimento dinanzi allo sguardo pesante
di chi avrebbe potuto picchiarmi. O piuttosto vergogna
come quando si passa ridendo dinanzi a un facchino.
Ma ho il terrore che fosse paura. Fuggire, fuggii.
E, la notte, le lacrime e i morsi al guanciale
mi lasciarono in bocca sapore di sangue.

L'uomo è morto. La medica è stata diverta, erpicata
ma mi vedo chiarissimo il prato dinanzi
e, curioso, cammino e mi parlo, impassibile
come l'uomo alto e cotto dal sole parlò quella sera.


siamo tutti quanti vittime di una paura antica.
la paura dei bambini che vivono attraverso il gioco.
giochi infranti sono le nostre paure. o giochi che non abbiamo avuto il coraggio di fare.
che strano essere di nuovo qui, a casa.
a casa di una madre debole e un padre che disapprova qualunque cosa e gioca con la colpa. forse esagero. ma non so perdonare il giorno che ha detto che sono una larva senza qualunque dignità.
mi ha accusata di cercare la vita da sola per la droga e lo sballo.
io, che quasi piango ad ogni sigaretta che accendo.
domani per fortuna andrò via.
la medica sarà estirpata un giorno, l'uomo cotto dal sole andrà via.
ma guarderò con paura anche il loro partire, credo.
ci sono cose nella vita che odi eppure provi fastidio all'idea che passino.
la mia famiglia è per me come per lungo tempo ho visto il pane: utile e letale insieme, senza che riuscissi a comprenderne bene il perchè. ma anche ad adddentarlo, vinta ogni resistenza, questo pane è muffito.
cazzo.

1 commento:

  1. Lascia andare. Non mordere, allenta la presa.
    Quella fuga non è codardia, ma evasione da un chi e un perchè che non ti appartengono per ritrovare, altrove, te stessa.
    Anch'io me ne sono andata.
    E' stato allora che, in un certo senso, seppure parzialmente, in maniera incompleta, ho comunque ricominciato un po' a vivere e a respirare.
    Si fa così, a poco a poco.
    Vai e sii pronta a non guardarti indietro e a non tornare.
    Proprio come dice la canzone di Irene Grandi, "Prima Di Partire Per Un Lungo Viaggio"... esattamente così.
    Ti abbraccio...

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